Fin da piccola sentivo mia zia ripetere una frase. «Poveri umani», diceva. Poveri umani che sbagliano, che non si sentono all’altezza, che sono improbabili, ridicoli, patetici. Io e la zia la usiamo ancora questa frase – che naturalmente vale anche per noi – quando ci vediamo o nelle lunghe telefonate che da sempre annullano l’ora di treno tra le nostre città. Poveri umani. Mentre traducevo questo libro ho ridacchiato spesso e sorriso molto, e mi venivano in mente sempre quelle due parole della zia, che è una persona con cui rido e parlo tantissimo, di cose stupide e di cose profonde.
I personaggi di Animali in salvo sono così, fanno tenerezza, è gente comune, normale, vulnerabile. Mi hanno ricordato un po’ Carver un po’ Alice Munro, ma con più sorrisi. C’è l’adolescente che per la prima volta sente arrivare una specie di cotta, e non sa bene cosa pensare, e pensa cose buffe tipo: ‘I baci portano al sesso e ovviamente volevo sapere cos’era il sesso ma sapevo anche che non avrei dovuto fare sesso perché se facevo sesso ero una puttana e se ero una puttana tutti avrebbero voluto fare sesso con me e poi mi sarebbe toccato fare sesso con tutti quanti continuamente, il che mi pare stancante. E poi non so dove troverei il tempo per esercitarmi al pianoforte.’
Questi personaggi sono un po’ goffi e in genere ti stanno simpatici. Fanno tenerezza, ti viene voglia di salvarli, di aiutarli, come quando trovi un gatto randagio. Mentre traducevo pensavo, eh sì in effetti vorrei essere amica di questa donna. Tipo della tizia che lavora in un ufficio dove ci sono solo lei e la sua capa, la quale è un po’ pazza ed è ossessionata da un’anatra. «Vuole che passi del tempo fuori casa, con chiunque, basta che non siano i miei. Ed eccomi qua, a passare del tempo con la mia capa nel cuore della notte ai piedi di un ponte in cerca di un’anatra. Un esempio perfetto del perché preferisco starmene a casa.»
E poi sono sempre pieni di dubbi. C’è la ragazza che riceve la grande proposta.
«E così adesso sono fidanzata. Prenotata, come un tavolo al ristorante» e poi alla fine «Come faccio a dirgli che non mi è mai venuto in mente di poter dire di no.»
C’e la donna incinta che però vuole continuare a bere un goccio, e non sa se poi in fondo riuscirà a voler bene a quel bambino. «Come se avessi fatto un patto con l’universo: una volta alla settimana mi era concesso bere e all’universo era concesso lasciarmi avere un bambino normale. Abbastanza semplice. Davvero, era il minimo che l’universo potesse fare, visto che mi aveva mollato in quel quartiere merdoso, tutta incinta e sposata e sola.»
E mi sono divertita a tradurlo perché parla dei grandi temi classici della vita – maternità, relazioni, infertilità, vecchiaia, sesso, amore – ma con la leggerezza di un soffione, con dialoghi vivaci, understatement, freddure. Per tradurli ho pensato a tutte le donne che conosco, ai miei amici, a tutte le persone che mi sembrano un po’ così, buffe, a volte tristi, a volte spassose, come me, come mia zia, come noi poveri umani.
Negli stessi giorni in cui lavoravo a queste storie ho tradotto un saggio di Teju Cole, che parla spesso dell’importanza di non avere certezze, di essere in grado di dubitare. Mi è piaciuta soprattutto questa frase: «Ci accomuna una fondamentale lealtà al dubbio produttivo, più che alle stridenti dichiarazioni di fede. Non siamo sicuri. Abbiamo perso la fede. Non troviamo certezze. Amiamo e dubitiamo.»
Un po’ come i personaggi di questo libro.