Un po’ come dice il titolo, Le cose che non vogliamo più, la sfida maggiore della traduzione
– come in tutte, ma in questo caso il leit motiv del libro è in tema – è stata quella di accettare l’idea di perdere qualcosa, e soprattutto condividere l’economia di parole che caratterizza la scrittura di Cynan Jones: scarna ed esatta, perfettamente priva di “scarti”. E poi, forse ancor più in questo testo che nel precedente romanzo di Jones, La lunga siccità, era necessario restituire i silenzi: il silenzio del mare, delle nasse, dei granchi che scivolano sulla sabbia. Le notti passate a raccogliere rifiuti, il silenzio interrotto soltanto da rumori secchi di camion e bidoni spostati. Il silenzio delle sale da biliardo, fatte di fumo, sguardi, gesti decisi e fluidi.
Quindi ho tentato di scegliere le parole più discrete e invisibili, per fare in modo che si posassero quasi di soppiatto nel testo. E poi tanti pensieri, di tutti i personaggi, che parlano poco ma vivono nella solitudine della propria mente. Pensieri a volte confusi, smarriti, ma anche silenziosamente in pace con il mondo.