«Ho fatto un gran miscuglio di passato e presente».
«I’ve mixed now and then all up».
Quando ho finito la prima stesura de L’uomo che aveva visto tutto mi sentivo così. Che non è una gran sensazione, cioè va bene se stai leggendo, non se devi guidare una barca, che poi è un po’ quello che si fa traducendo.
Avevo letto tutti i memoir di Deborah Levy ma solo un romanzo e una raccolta di racconti prima di iniziare a tradurla, quindi sapevo che il territorio della sua fiction era più difficile da percorrere, e bisognava affidarsi a mappe completamente diverse. Con i memoir mi sembrava di muovermi sulla terra, con questo romanzo avevo la netta sensazione di essere in mare.
Una costellazione da seguire per navigarlo è la Storia, – l’Europa e quello che ha preceduto l’unificazione, con guerre, muri, tragedie – e al contempo le storie degli umani e la fatica di restare uniti. È un romanzo sullo sforzo della pace – storica e privata – e sull’impegno dell’amore, sui passi necessari e difficili per capire e a capirsi, e quindi anche per tradursi.
Ma quello che mi ha impressionato è l’intreccio di verità e menzogna, versioni e interpretazioni. Ci ho messo un po’ a sentirmi a mio agio con questa sensazione costante nel romanzo, di tempo e spazio mutevoli, scivolosi, ingannevoli, e forse ho dovuto un po’ trasformarmi anche io in un astronauta o in un palombaro per calarmi nei labirinti della mente complessa di Levy. Ogni storia può avere prospettive e finali infiniti, sembra dirci lei (e ogni traduzione non è mai definitiva, risponderebbe Lorca) e quindi dobbiamo fidarci e affidarci, anche in tempi di sospetti e spie e cimici, e anche quando, come scrisse il grande poeta belga Maurice Maeterlinck “a ogni bivio sul sentiero che porta al futuro, la tradizione ha posto 10.000 uomini a guardia del passato”.
Da quando abito in Grecia, ho avuto la fortuna di passare un bel po’ di tempo con Deborah Levy, la prima volta ad Atene, dove è scattata subito una profonda simpatia reciproca, e poi nella sua isola del cuore, Hydra, che è a poche ore – ma a mondi di distanza – dall’isola dove abito io. A Hydra l’ho raggiunta con Eugenia (Dubini) in questo torrido agosto del 2021, così da chiudere insieme il lavoro sulla traduzione per NN. Proprio come nei suoi romanzi, quando ti racconta qualcosa Deborah Levy lo fa con un’aria da cospiratrice, come se volesse condividere un grande segreto. Abbassa la voce, che è già un filo, ti fissa con gli occhi verdi cerchiati di kajal blu, e poi, con un gran sorriso da bambina che ha scoperto un tesoro, ti trascina nelle sue storie tra una sigaretta rollata e un bicchiere di retsina (‘lo fanno da duemila anni con la resina dei pini, e costa così poco che non la tiene nessuno – è una rarità nelle taverne!’).
Si capisce che è abituata a perdersi, e a ritrovarsi, in storie senza tempo né luogo, racconti che potrebbero essere accadute ieri o mille anni fa, a Parigi o a Bombay, popolati da creature bellissime o tormentate, narcisi e lunatici.
In uno dei suoi racconti, contenuti in Pillow Talk in Europe and Other Places, scrive: “Bisogna godere della parola, sperimentare vari modi di esprimersi, essere esuberanti anche quando non se ne ha voglia perché il linguaggio può rendere il mondo un posto migliore in cui vivere”.
Ed è questo che fa Deborah Levy quando racconta, rende il mondo un luogo migliore, o forse sarebbe meglio dire magico, perché il suo linguaggio ha il potere di immergerti in un altro tempo, in un altro spazio e in un altro cuore, e dopo ti senti cambiato, e ci vuole qualche istante per rimettere i piedi sulla terra che calpestavi poco prima. Come se tutto quello che racconta fosse una fiaba, dopo una lauta cena, per risvegliarti dalla magia – o forse per aggiungere magia – ti dice: “Andiamo a fare un tuffo?” sempre con quello sguardo fanciullesco. E quindi sì, bisogna tuffarsi in questo romanzo – e, come leggerlo, tradurlo è stato tutto un leap of faith, un salto nel vuoto, un affidarsi – per poterla seguire nei labirinti della sua mente. Ma poi, come dopo un tuffo a mezzanotte, si emerge dall’acqua rinati, sotto un cielo di stelle che forse senza di lei non avremmo notato.