Mi capita spesso di fare amicizia con gli scrittori che traduco – di sicuro sarei diventata amica anche di Iris Murdoch e Saki e Gwendolyn Brooks se ci fossero ancora. Se si pensa che un libro di 300 pagine richiede come minimo 4 mesi di lavoro, è facile capire che il traduttore abita per tutto quel tempo nella testa di chi lo ha scritto, una sistemazione domestica che inevitabilmente favorisce una certa intimità. E soprattutto richiede una fiducia cieca da parte dell’autore perché in fin dei conti qualcun altro sta riscrivendo il suo libro, con parole simili di una lingua che spesso non conosce.
Se oltre alla convivenza mentale finisci anche per dormire nella sua stanza degli ospiti e per ospitarlo/a a casa tua, l’intimità raggiunge livelli quasi simbiotici che vanno ben oltre L’Albergo nella Lontananza di Berman – e la traduzione cambia, forse migliora, ma senza dubbio è diversa perché arrivi a conoscere il suo lessico familiare.
Ho conosciuto Teju Cole in India mentre facevamo la coda nella mensa di un campus universitario. Era il 2011, ed eravamo stati invitati a un piccolo festival, lui perché aveva appena pubblicato Open City, ovvero Città aperta, ed era ancora più o meno uno sconosciuto, io perché avevo tradotto tre degli autori indiani presenti. Mentre cercavamo un tavolo avevamo continuato a chiacchierare.
Ovviamente non sapevo che avrei finito per tradurre più o meno tutte le sue parole pubblicate – libri e articoli – nei dodici anni successivi.
Teju mi è stato subito simpatico, a pelle. Avevamo scoperto in fretta di avere molte cose in comune: il piacere di vagabondare, prima di tutto. “Esplorare il mondo è uno dei modi migliori per esplorare la mente, e camminare percorre entrambi i terreni” scrive Rebecca Solnit in Storia del camminare. E poi la curiosità per la fotografia, la poesia, l’arte, la letteratura. L’abitudine di essere altrove, di “fare casa” ovunque con facilità.
Nelle nostre conversazioni abbiamo parlato di Sebald, naturalmente, ma anche di Bamako e di navi negriere, di cieli e di musica africana, dell’amato Seamous Heaney, di Siri Hustvedt, i cui scritti hanno molte affinità con i suoi e che traduco da esattamente vent’anni. Anche lei è diventata una cara amica nel tempo, pronta ad accogliermi e a discutere di tutte le cose che ci interessano ogni volta che sono a New York. A ogni modo, in quella mensa indiana non immaginavo che avrei passeggiato e scambiato idee con Teju molte volte nel corso degli anni. Ci siamo visti alla Biennale di Venezia, abbiamo vagato sotto il dito di Cattelan a Milano e tempo dopo in una Roma surreale fino all’alba, discutendo del modo di camminare di Mastroianni – di cui aveva appena scritto un testo che poi ho tradotto. A casa sua, a cena, abbiamo deciso che una traduzione accettabile di blackness (niente è definitivo o meglio “Il concetto di testo definitivo appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza” come diceva Borges) poteva essere “nerità”, mentre sua moglie, che è indiana, mi chiedeva ridacchiando come avrei tradotto browness (eh). Nelle tante esplorazioni di Atene – dove Teju non era mai stato e che ora ama con la mia stessa passione – abbiamo notato le gentilezze dei Greci, discusso di immigrazione, ammirato produzioni teatrali classiche e sperimentali. In un certo senso, ho il privilegio di vedere con i suoi occhi quello che poi probabilmente finirà in un prossimo libro o articolo.
Nel corso degli anni, le chiacchierate e i chilometri condivisi hanno modulato la voce che ho dato alle sue parole, perché lui è un buon ascoltatore, e credo di esserlo anch’io. E poi ho conosciuto anche altri suoi traduttori – quest’anno gli ho proposto di conoscerli prima di consegnare il romanzo nuovo, Tremore, e Teju ha accettato subito con il suo entusiasmo fanciullesco. Abbiamo avuto una lunga, interessante conversazione con la traduttrice tedesca e il traduttore olandese e preparato un google doc di domande e risposte per i colleghi che man mano lo tradurranno in altre lingue.
Una combriccola di ventriloqui che si passano il testimone per facilitare il lavoro del successivo.
Durante una residency in Canada, a Banff, chi veniva selezionato aveva il privilegio di poter invitare l’autore su cui stava lavorando. Trenta ventriloqui tutti insieme per un mese. Quando è arrivata Sarah Manguso abbiamo iniziato a parlare di un milione di cose come se fossimo amiche da anni e in particolare, chissà perché, di case e di spazi. Le ho mostrato una foto del mio appartamento spartano e le ho raccontato che tendo ad abbandonare ricordi e oggetti, ma ho iniziato a tenerne un po’ di più mentre traducevo Andanza. Era stupefatta all’idea che avessi imparato qualcosa traducendola. Anche a lei piacevano gli spazi spogli. Passavamo tutti i pomeriggi a lavorare su piccole cose da lucidare, tagliare e potare. Continuava a dire: “Sì, taglia anche questo. No, questa frase non funziona nemmeno in inglese, toglila. È più bella in italiano, più pulita. Solo parole pure”. Eravamo euforiche per tutta quella pulizia. Un po’ come fare ordine in casa, cosa che piace a entrambi. D’altronde, per il geniale Angelo Morino i traduttori sono “le casalinghe e i casalinghi della letteratura”.
È stato faticoso ed eccitante, come fare le passeggiate in montagna tra cervi e orsi (battere le mani per spaventarli) e nuotare nelle sorgenti termali. In un articolo su Asymptote in cui parla di scrittura e traduzione ha scritto “Mentre ci arrampicavamo, Gioia fumava. Io da brava americana, avevo scarponcini da arrampicata e un grosso zaino pieno di litri d’acqua, kit di pronto soccorso, crema solare, snack vari e così via, lei scarpe da ginnastica e felpa. Nessuna borsa, solo tabacco e cartine in tasca. Le nostre escursioni insieme sono state un corteggiamento, un’incomprensione reciproca all’interno di una comunione, come tutte le traduzioni.”
Le parole di Manguso si restringono e ricrescono continuamente come le maree, e la mia traduzione ha dovuto seguire questo ritmo, che presto è diventato il mio, di aggiunte e sottrazioni. La sua scrittura è un paesaggio con diversi tipi di clima e temperature sotto un cielo ingannevolmente limpido, ed è più vicina alla poesia che alla prosa. E si percepisce che lavora costruendo e poi togliendo, finché rimane solo l’impalcatura, una struttura solida su cui il lettore può arrampicarsi. Ma l’architettura dei suoi testi contiene anche una buonda dose di mistero. Quindi la difficoltà sta nel mantenere l’equilibrio tra i silenzi, i non detti, e la tentazione di aggiungere, il desiderio di rivelare di più, di spiegare.
Non credo che avrei potuto tradurre i suoi tre libri – che, come la maggior parte delle gemme letterarie, sembrano facile da tradurre ma poi non lo sono – cinque o dieci anni fa, perché ora sono più porosa ma anche più decisa nel prendere decisioni, decine in ogni pagina. È uno degli incantesimi della traduzione. Con Manguso ho imparato a scendere nel dolore traducendo Il Salto e a essere fedele alla mia inevitabile infedeltà al testo con Sottovoce.
Ho imparato a riflettere sugli intrecci di corpo e mente grazie a Siri Hustvedt, a “esplorare il proprio temperamento andando alla ricerca della verità” con Iris Murdoch, a sentire colori e annusare parole e toccare suoni per tradurre la poesia in prosa di Mary Ruefle, con cui da anni intrattengo un’esilarante corrispondenza rigorosamente via lettera battuta a macchina. Quando le ho chiesto il significato di una parola contenuta in un brano a dir poco astratto, ashling (che i vocabolari danno come sogno o visione in una rara accezione irlandese) lei mi ha risposto: “Oddio pensavo a ash, a cenere ma non ricordo dove ho trovato quella parola, o se l’ho inventata, ma che bello questo significato irlandese del sogno che hai scovato! Comunque usa l’immaginazione e inventati qualcosa che dia l’idea di sogno, oppure di cenere ma anche di albero, e fai che sembri piccolo, minuscolo… Magari tipo ashtray??” Per un altro brano dove c’era un gioco di parole praticamente intraducibile, mi ha risposto: “Oh sì che guaio. Vuoi che lo riscrivo? Anzi, riscrivilo tu! Cambia anche il titolo!”
In una delle sue lettere mi ha scritto: “Bellissima questa cosa che le lettere ci mettono settimane ad arrivare fino a te. Non ho mai messo piede su un’isola greca. È solida o spugnosa?” Eh. Bella domanda. Però mi ha fatto capire che dovevo vedere l’isola – e il mio modo di tradurre lei – toccandola con i piedi, annusandola con le mani, immaginando tutto con i sensi ribaltati.
A proposito di isole, ho conosciuto Deborah Levy mentre la traducevo, e sono andata a trovarla nella casa fiabesca che affitta sull’isola di Hydra, a un paio d’ore in mare dalla mia isola. La scusa era levigare il suo romanzo L’uomo che aveva visto tutto, ma di fatto poi le chiacchiere e i bagni di notte erano più divertenti. Quando poi ho ricambiato l’ospitalità, in effetti abbiamo parlato di tutto per una settimana, tranne di libri. Però mentre traducevo la trilogia mi sono resa conto che le parole affioravano facilmente proprio perché invece di leggerla sulla pagina mi sembrava di sentirla, con il tono giusto, come in un audiolibro.
Mi è successa un po’ la stessa cosa anni fa, quando ho avuto Jenny Offill come vicina di casa per qualche mese – lavorare al suo libro Tempo Variabile è stato come sentire le sue storie e le barzellette nerissime, fare la spesa insieme e uscire sempre con le cose sbagliate, senza i prodotti fondamentali per cui eravamo andate al supermercato, guardarla cucinare roba che finiva invariabilmente al cane, o commentare le terribili notizie di politica e lavorare di fantasia su dove trasferirsi. E poi avevamo scoperto la stessa passione malsana per i manuali di sopravvivenza tipo Giovani Marmotte e per gli aggeggi delle spie. Sinceramente senza questa conoscenza un po’ speciale non so come avrei tradotto il suo libro, perché è zeppo di citazioni criptiche.
Come scrive Paul Auster, che poi è il marito di Siri Hustvedt, ne L’Invenzione della Solitudine: “A. siede nella sua stanza a tradurre il libro di un altro, ed è come se entrasse nella solitudine di quell’uomo facendola propria. Ma questo è irrealizzabile, perché quando si apre una falla nella solitudine, quando di una solitudine si impossessa qualcun altro, non è più solitudine, ma una specie di compagnia. Anche se nella stanza c’è una persona sola, in realtà ce ne sono due”.
E infatti non mi sento mai sola quando traduco. È il mestiere più bello del mondo stare lì a fare grandi puzzle con le parole degli altri. Se poi ogni tanto questa specie di compagnia diventa carne e ossa e si va a mangiare in taverna allora si raggiunge la perfezione.
Teju Cole e Siri Hustvedt sono pubblicati da Einaudi
Iris Murdoch e Saki dal Saggiatore
Levy, Manguso, Offill e Ruefle da NN editore