Deborah Levy
NdT
Ho conosciuto Deborah Levy ad Atene poco prima di finire di tradurre il suo romanzo L’uomo che aveva visto tutto. Diciamo che per ovvi motivi mi era già simpatica da tempo. Non solo seguivo il suo lavoro da anni, ma avevo letto la trilogia appena era uscita, e mi ritrovavo del tutto nella sua descrizione di donne indipendenti che “in sella al loro destriero” – che poi sarebbe un high horse che però vuole dire ‘mettersi sul piedistallo’, ma si può benissimo tenere come formidabile calco con una piccola modifica – galoppano nella vita a testa alta, senza curarsi del giudizio altrui. Non ci avevo mai riflettuto su questa cosa del piedistallo o del destriero, perché sono fatta così e basta, ma è una delle classiche definizioni di Levy che ti fanno dire, oh guarda, ecco, la penso proprio così, ma prima di leggerla non sapevi formulare. Comunque, appena l’ho conosciuta è subito nata una grande amicizia. A differenza di me, ha avuto un marito e due figlie, ma è giunta alle stesse conclusioni di molte donne sul nostro ruolo nella società e nella famiglia. Come me, è una viaggiatrice curiosa e parla con tutti perché è genuinamente interessata agli esseri umani.
Tradurla è stato un po’ come ripassare l’ABC del femminismo più puro, originario – Duras, Beauvoir, Woolf, – filtrato o meglio reso più moderno dai pensieri di una donna decisamente contemporanea, una scrittrice che si è sempre mantenuta – a fatica, certo – con la sua arte e che solo dopo anni di riflessione ha capito quanto può andarne fiera, e quanto il giogo del patriarcato può plasmare le nostre vite.
Quando mi ha invitato nella grande villa fatiscente nell’isola vicina alla mia, mi sembrava di stare in un quadro, perché avevo già nella mente ogni suo spazio e angolo e oggetto da quando avevo letto il terzo libro della trilogia. I due giardini, la grande stanza con il soffitto altissimo, i sessantatré gradini, l’enorme cucina con le ceste appese e il grande camino. Senza dubbio è stato più facile trovare le parole giuste, gli aggettivi più adatti per descrivere la luce e il respiro degli spazi. E quando lei è venuta a casa mia, sulla mia isola, abbiamo passato una settimana a nuotare prima di tutto – dice che è fondamentale per scrivere meglio – e poi a parlare non tanto di letteratura, ma di tutte le cose che la compongono – piacere, lavoro, indipendenza, scrittura, arte, amore, amicizia, vecchiaia – ed era come avere il dizionario già aperto, come scrivere (ops, tradurre), con la sua voce.
E la sua è una voce forte, che non obbedisce a tutto quello che dicono le guru del femminismo, Levy sceglie e riflette: quando Beauvoir descrive schifata la noia della vita domestica e della cura del focolare, lei risponde terra terra, con la sua consueta, disarmante ironia: ”Decisi comunque di disobbedire a Beauvoir e di cercare un Monoprix nel quartiere per fare scorta di piatti e posate.”
Dopo anni passati a prendersi cura degli altri, Levy impara a prendersi cura di se stessa.
“Nessuno può renderla felice, deve pensarci da sé” scrive ne Il cornetto acustico LeonoraCarrington, altra donna formidabile che Levy e la sua anziana amica leggono insieme.
Ed è questo che riesce a fare questa scrittrice formidabile: ti fa riflettere con una risata, parlando di cose apparentemente superficiali, come le lenzuola di seta, per affrontare temi fondamentali.
“Dormire nella seta era stato una rivelazione. Era fresca e calda, come una seconda pelle, forse come un amante. Quando ero tornata alle lenzuola di cotone in cui avevo dormito tutta la vita mi erano sembrate insopportabilmente ruvide. Ci avevo dormito per una settimana, forse come si faceva con il cilicio, che veniva usato per mantenere il contatto con la dura realtà dell’esistenza. Francamente, non avevo più nessun bisogno di quel tipo realtà.”
Con tutto questo suo parlare di stanze e spazi e vecchie ville profumate di mimose e Bachelard (che guarda caso adoro) e dell’idea di abitare un giorno in una grande casa vera e propria in cui accogliere gli amici, il giorno prima di consegnare l’ultimo libro della trilogia ho fatto un lungo sogno dettagliato in cui salivo sessantatré gradini e, da un orecchio su cui luccicava un orecchino di cristallo verde entravo nella testa di Levy: era esattamente come la grande sala dove scrive, che ricorda un po’ un antico vascello, e dopo averla ammirata, mi aggiravo per le stanze e i giardini chiamando Deborah. C’erano la giostra di cavalli afgani, le scarpe verde salvia, la torta di arance. Guardavo i cavalli, indossavo le scarpe, mangiavo la torta. E poi lei arrivava e mi diceva, Accomodati, fai come se fossi a casa tua. E io mi sentivo già a casa mia, perché in effetti noi traduttori passiamo mesi, a volte anni, in compagnia degli autori che traduciamo, seduti accanto a loro in una strana convivenza quotidiana.
E ora mi voglio comprare delle lenzuola di seta e una gelatiera e venti chili di guava.
Come scriveva Paul Auster – che poi era il marito di Siri Hustvedt nella cui testa ho abitato per nove libri, cioè qualche anno – ne L’invenzione della solitudine: “A. siede nella sua stanza a tradurre il libro di un altro, ed è come se entrasse nella solitudine di quell’uomo facendola propria. Ma questo è irrealizzabile, perché quando si apre una falla nella solitudine, quando di una solitudine si impossessa qualcun altro, non è più solitudine, ma una specie di compagnia. Anche se nella stanza c’è una persona sola, in realtà ce ne sono due”.
Ho passato parecchi mesi nella testa di Deborah Levy. La sua scrittura è una casa da sogno, dove si pensa, si chiacchiera e si ride molto. Forse adesso è anche una vecchia dimora italiana, assolata, accogliente, eccentrica e un po’ greca.
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Translator’s note
Gioia Guerzoni
I met Deborah Levy in Athens shortly before I finished translating her novel The Man Who Saw Everything. For obvious reasons, I liked her well before we met. Not only had I been following her work for years, but I had read the trilogy when it came out, and I completely identified myself in her description of independent women who, “riding their steed” –-which in her text is a high horse or we would say in Italian “putting oneself on a pedestal” –but you can just keep the idiom with a suitable calque and a little modification – proudly gallop through life, regardless of anyone’s judgment. I had never thought about this pedestal or horse thing, because that’s just the way I am. However, as soon as I met her, I felt that a deep friendship could easily develop. Unlike me, she was divorced with two daughters, but I guess she has come to the same conclusions as many women (no spoiler). Like me, she liked wondering and wandering and talks to everyone because she is genuinely interested in human beings and their stories.
Translating her was a bit like brushing up on the ABCs of the purest, original feminism – Duras, Beauvoir, Woolf –, filtered or rather made more modern by the thoughts of a decisively contemporary woman, a writer who has always supported herself – with difficulty, of course – with her art, and who after years realized how proud she can be of it, and how much the yoke of patriarchy can shape our lives.
When she invited me to the grand old poetic villa on the island next to mine, I felt like I was in a painting, because, since reading the third book in the trilogy, I already had every corner and object in mind. The two gardens, the grand studio with the high ceiling, the sixty-three steps, the huge kitchen with the hanging baskets and the big fireplace. No doubt it was easier to find the right words, the right adjectives to describe the light, the breathing of the spaces. And when she came to my house, on another island, we spent a few days swimming – crucial for good writing she says – and talking. Not so much about literature, but about all the things that make it – pleasure, work, independence, writing, art, love, friendship, old age – and it was like having the dictionary already open, like writing (oops, translating) with her voice. And hers is a strong voice, one that does not obey everything the gurus of feminism say. Levy chooses and ponders: when Beauvoir disgustedly describes the boredom of domestic life and caring for the house, she responds earthily, with her usual disarming irony: “I decided to disobey Beauvoir and find a local Monoprix to stock up on plates and cutlery.”
After years of caring for others, Levy learned to think about herself too.
“There is nobody that can make you happy, you must take care of this matter yourself.” This is what Leonora Carrington writes in the Hearing Trumpet, another formidable woman whom Levy and her elderly friend read together.
And that is what Levy manages to do, she makes you think with a smile, and talks about seemingly superficial things, like silk sheets, to address fundamental issues.
“To sleep in silk was a revelation. It was cool and warm, like a second skin, perhaps like a lover. When I replaced the silk with the cotton sheet on which I had slept all my life, it suddenly felt very harsh on my skin. I kept it there for a week, perhaps in the way that hair shirts were worn as a means of keeping in touch with the harsh realities of life. Frankly, I did not need any more of that sort of reality.”
With all this talk of rooms and spaces and old mansions scented with mimosas and Bachelard (whom I happen to adore) and the idea of one day living in a big house in which to welcome friends, the night before I handed in the last book of the trilogy I had a long, detailed dream in which I climbed sixty-three steps and, from an ear glittering with a green crystal earring, I entered Deborah’s head: it was exactly like the grand room where she writes, somewhat reminiscent of an ancient vessel, and after admiring it, I would wander around the rooms and gardens calling her. There were the Afghan horses, the sage green shoes, the orange cake. I looked at the horses, put on the shoes, ate the cake. And then she appeared and said, Take a seat please, make yourself at home. And I already felt at home, because we translators spend months, sometimes years, in the company of the authors we translate, sitting next to them in a strange domestic arrangement.
And now I want to buy silk sheets and an ice cream maker and twenty kilos of guava.
As Paul Auster – who was the husband of Siri Hustvedt in whose head I dwelt for nine books, that is, a few years – wrote in The Invention of Solitude:
“A. sits down in his room to translate another man’s book, and it is as though he were entering that man’s solitude and making it his own. But surely that is impossible. For once a solitude has been breached, once a solitude has been taken on by another, it is no longer solitude, but a kind of companionship. Even though there is only one man in the room, there are two.”
I spent several months in Deborah Levy’s head. Her writing is a dream house, where one can think, chat and laugh often. Perhaps now it is also an old Italian mansion: sunny, cozy. quirky, and a bit Greek.