L’airone della pioggia

Robbie Arnott

Ndt

Nota del traduttore

Per tradurre una fiaba, e questa è una fiaba per adulti, bisogna tornare un po’ bambini, cosa che non mi costa mai fatica. Appena ho letto The Rain Heron sono corsa a cercare tra i miei libri quella che per me è una specie di bibbia, Gli imperdonabili di Cristina Campo, e ho riletto una frase che ho sempre amato: “A chi va nelle fiabe la sorte meravigliosa? A colui che senza speranza si affida all’insperabile.”

E nei mesi in cui ho tradotto L’airone della pioggia, mesi di sofferenze indicibili inflitte a una popolazione civile sotto gli occhi impotenti o indifferenti del mondo, mi sono rifugiata e affidata all’insperabile di questa storia dal ritmo eterno, un ritmo proprio “di tutti quegli scritti spirituali che prestano e riprendono di continuo alla fiaba le sue esatte iperboli, i suoi precisi impossibili.”

Ed è proprio uno scritto spirituale, secondo me, questa favola che sta in equilibrio tra la distopia, il mito e l’allegoria. Per questo mi faceva bene al cuore tradurla, anche perché ti avvicina alla realtà – cambiamento climatico, colpi di stato, migrazioni forzate – aiutandoti ad allontanartene con creature che non sono di questo mondo, non solo il meraviglioso airone fatto di pioggia e portatore di benefica acqua o nebbia, gelo e distruzione, ma anche bestie marine quasi magiche, totani enormi dall’inchiostro cangiante, bellissimi ma capaci di uccidere.

Nelle fiabe c’è la volontà, come scriveva Benjamin, di “prendere all’amo il mondo incantato”, e lo stile fiabesco ha proprio il compito di spezzare ogni volta il sortilegio del mito. Ed era questo stile fiabesco che ho tentato di mantenere, per esempio usando la parola tempesta al posto di nubifragio o ciclone, forestiero al posto di ‘uomo del nord’, ecc. Mentre di solito mi ritrovo a cercare una voce precisa, che restituisca l’essenza di un personaggio, qui i personaggi sono più spesso colti a pensare più che dialogare, e sono proprio le ‘creature’ altra parola fondamentale, e la natura, con le sue foreste fitte e la luce della luna e i rumori degli animali, a rimanere protagoniste, perché è proprio quello che rischiamo di perdere – il pianeta – che ci fa riflettere sulla fragilità di noi esseri umani. Come in molte fiabe, ci viene mostrato quello che minaccia la vita ma anche quali sono i mezzi per cavarsela. “La caparbia, ininterrotta lezione delle fiabe è la vittoria sulla legge di necessità e nient’altro, perché nient’altro c’è da imparare su questa terra.”

E cosa ha davvero valore in fin dei conti, in questo libro dove la vista e la sua mancanza sono così importarti? Le relazioni tra le persone, il rapporto con la natura, gli animali.

Arnott ci regala una parabola moderna del mondo attuale, mostrandoci cosa potrebbe succedere nel nostro futuro immediato: se perdiamo gli occhi, finiremo per perdere anche il cuore, quindi bisogna sempre guardare e prestare attenzione, e avere cura, come se il pianeta stesso fosse un animale raro, una creatura meravigliosa.

E la natura è la cosa più preziosa che abbiamo e Arnott continua a ricordarcelo.

“Gareggiò con il calare del sole avanzando piano ma con passo deciso. Salì su per la collina, sull’erba scura, oltre le pietraie, attraverso radure piene di luce e gelidi ruscelli, sempre circondata dai pini imponenti, sempre con i loro aghi che scivolavano scricchiolando sotto i suoi stivali nuovi. C’erano anche altri tipi di alberi che si protendevano verso l’alto in alcuni punti: spigolosi abeti rossi, faggi dalla gran chioma e betulle smilze dai tronchi chiazzati. Aveva imparato a riconoscerli tutti, anche gli esili abeti bianchi che all’inizio le erano sembrati quasi indistinguibili dai pini di montagna, finché non aveva visto come, ad altezze maggiori, si ergevano nobili e solitari. Ma erano i pini a dominare i pendii, in grappoli e gruppetti che a Ren sembravano infiniti e sempre benvenuti.”

Le sue descrizioni sembrano fatte di sogno ma il sogno è la nostra realtà, ed è meglio accorgersene prima di chiudere gli occhi.