Mentre traducevo queste storie avevo appena letto di un rabbino polacco, Simcha Bunim Bonhart di Przysucha vissuto verso la fine dell’Ottocento, che esortava i suoi seguaci a scrivere su un foglio Il mondo è stato creato per me, ripiegarlo e tenerlo in tasca. Suggeriva poi di mettere un altro foglietto nella tasca opposta, con scritto Io non sono che polvere e cenere. Secondo il rabbino, questa tensione non era solo necessaria ma cruciale.
Non si tratta di trovare un equilibrio, ma piuttosto di sopportare quel tipo di tensione. Abbiamo bisogno di entrambi i mondi e del doppio di ogni emozione, tenuti stretti. Uno in ogni tasca.
La condizione umana, che Moniz descrive così bene, è questo. Essere capaci di grande gentilezza e di tremenda crudeltà. Portare la gioia nella mano sinistra e il dolore nella destra. Far convivere il bianco e il nero – e Moniz è maestra nel dipingere un tributo alle black lives, alle vite nere che cercano di andare avanti, in storie di vita quotidiana dove il razzismo non è al centro ma è proprio in quella tensione, c’è e si sente. L’unico accenno diretto è nel racconto Esotici, quando scrive: «Anche se i nostri padri ci avessero regalato le ricchezze dei padri e dei nonni prima di loro, ottenute con la vita e la morte di corpi neri e marroni, nessuno di noi avrebbe voluto essere complice di una opulenza così terribile; noi dovevamo solo spazzare».
E ciascun racconto sembra concentrarsi su un sentimento in particolare, e sul suo doppio. La vergogna dei due fratelli in Il sangue non è acqua, una vergogna che si trasforma in rabbia ed è la rabbia incandescente di due persone che un tempo si adoravano. “Questa parte è facile, il tempo che si apre e ci ingoia dolcemente in un passato più semplice. Un passato in cui io e Lucas ci prendevamo a calci pugni morsi, ci facevamo i dispetti e ci sfottevamo di continuo ma ci addormentavamo sempre fianco a fianco”.
È la paura e l’euforia della possibilità di un figlio, in cui è facile specchiarsi, in Corpi necessari, un viaggio nella mente di una donna che vuole avere la libertà di dubitare, di scegliere, di avere paura. “Stava pensando a un milione di cose, alcune delle quali l’avevano tormentata anche prima che lo scoprisse: e se ci fosse un’inondazione; se quell’uomo orribile viene rieletto; se non sono una brava madre; se lo tengo e poi decido che non lo voglio; se non lo ten-go e mi pento; e se qualcuno mi spara al supermercato, al cinema, a casa mia; e che dire del revisionismo a scuola; e se non sono abbastanza altruista; se sono troppo altruista; se io e Liam divorziamo, tutto può succedere; e se il bambino mi odia; se sono crudele; se lo adoro e ci perdo la testa; se niente di tutto questo può durare, né il nostro amore né il nostro pianeta? E se alla fine buttiamo un po’ di colorante nell’oceano e gli auguriamo buona fortuna?”
Ma oltre alle emozioni, il vero protagonista di queste sto rie è il dono prezioso e casuale della vita – “intrappolati nell’ambra di questo istante senza nessun perché” diceva Vonnegut – che questo lungo isolamento ci costringe a non dimenticare mai. Il gioco preferito di due ragazzine e pensare a tutti i modi in cui potrebbero morire. Un uomo di mezza età non riesce a gestire il fatto che sua moglie stia morendo. Due cuginette rischiano di annegare e imparano cosa significa sopravvivere, con tutto quello che ne consegue. Una donna perde il figlio che ha in pancia e si sente capita solo da un polipo. Una ragazzina vive con la nonna un po’ maga e raccoglie ossa di animali.
Le dinamiche familiari fanno da sfondo alla maggior parte di queste storie ambientate nel caldo appiccicoso della Florida, che mi hanno ricordato moltissimo quelle di un conterraneo della Moniz, Poissant e il suo Paradiso degli animali, che ho tradotto cinque anni fa sempre per NNE. Vite di persone comuni che superano tragedie comuni, ma Moniz va dritto al cuore di ogni questione e lo seziona con un’onestà brutale e affettuosa insieme. In tutti noi c’è un nucleo nero, un “lato oscuro”, ma se lo guardiamo in faccia possiamo sopravvivere e forse diventare persone migliori, sembra dirci la Moniz.
Mi chiedo se le cose sarebbero andate diversamente per mia cugina se avessi confessato quel mio lato oscuro. Se lo avessi versato sul tavolo della cucina, dove la luce potesse raggiungerlo, per passarlo al setaccio e confrontarlo con il suo?
Mentre traducevo i racconti che avete appena letto ero in una casa vuota e avevo l’impressione che queste vite che dovevo plasmare nella mia lingua la riempissero. In questi due anni di distanze – distanza dal paese dove sono nata, distanza dagli amici antichi, distanza da tutto quello che conosco e due metri di distanza dagli esseri umani in generale – mi sono allenata, penso come tanti altri, a mettermi nei panni degli altri, ad avvicinarmi in un altro modo alle persone, visto che i corpi sono diventati un pericolo. La traduzione è di per sé un esercizio di empatia ma forse questi undici racconti in particolare ci aiutano proprio a fare questo, a immaginare le vite degli esseri umani partendo da quello che provano più che da dove vengono o cosa fanno o di che colore hanno la pelle, perché in fin dei conti proviamo tutti, sempre, le stesse antiche emozioni. E mi sono sentita adolescente smarrita, bambina solitaria, uomo distrutto, nonna maga, donna malata, madre confusa, sorella arrabbiata. Ho cercato di usare voci diverse per ciascuno, e alla fine non è stato poi così difficile. Se si gioca a dimenticare lo spazio e il tempo, la nostra vita è in queste storie.
While I was translating these stories I had just read about a Polish rabbi, Simcha Bunim Bonhart from Przysucha who lived in the late19th century. He had urged his followers to write on a piece of paper The World Was Created for Me, fold it up and keep it in their pocket. He then suggested putting another slip of paper in the opposite pocket, with the words I am but dust and ashes. According to the rabbi, this tension was not only necessary but crucial.
It is not about finding a balance, but rather about enduring that kind of tension. We need to hold tight on both worlds and the opposite of each emotion. One in every pocket.
The human condition, which Moniz describes so well, is this. To be capable of great kindness and tremendous cruelty. To carry joy in the left hand and pain in the right. Bringing black and white together – and Moniz is a master at painting a tribute to black lives, black lives trying to get by, in stories of everyday life where racism is not at the centre but is right in that tension, it is there and it is felt. The only direct mention is in the short story Exotics, when she writes, “Even if our fathers had handed us riches from their fathers and their grandfathers before them, made off of the lives and deaths of black and brown bodies, none of us would want to be complicit in such terrible opulence; we only swept up the place.”
And each tale seems to focus on one feeling in particular and its double. The shame of the two brothers in Thicker Than Water, is a shame that turns to anger and it’s the glowing rage of two people who once adored each other. “This part is easy, time breaking open to slurp us smoothly into the simpler past. Where Lucas and I had bitten and scratched and punched and kicked and tricked and teased each other and still we went to sleep side by side.”
It is the fear and exhilaration of the possibility of a child, in Necessary Bodies, a journey into the mind of a woman who wants to have the freedom to doubt, to choose, to be afraid. “She was thinking a million things, some of which had plagued her even before she’d found out: What if the state floods; we reelect that terrible man; if I’m bad at it; I do it and then decide I don’t want to do it; if I don’t do it and miss it; what if someone shoots me in the grocery store, the movie theater, my own home; what about the revisionist histories taught in schools; what if I’m not self-sacrificing enough; if I’m too self-sacrificing; if me and Liam get divorced, shit hap- pens; what if the kid hates me; if I’m cruel; if I really really love it and lose it; if none of this can be sustained, not our love or our planet? What if, in the end, we just dye the ocean and wish it well?”
But besides emotions, the real star of these stories is the precious and random gift of life – “trapped in the amber of the moment. There is no why” said Vonnegut – that this long isolation taught us to cherish.
Two young girls’ favourite game is thinking of all the ways they could die. A middle-aged man can’t handle the fact that his wife is dying. Two little cousins are in danger of drowning and learn what it means to survive, with all that entails. A woman has a miscarriage and feels understood only by an octopus. A young girl lives with her grandmother – who is a bit of a sorceress – and collects animal bones.
Family dynamics form the backdrop for most of these stories set in the sticky Florida heat, which reminded me very much of those of Moniz’s countryman, Poissant and his The Heaven of Animals Paradise, which I translated five years ago also for NN. These are lives of ordinary people overcoming ordinary tragedies, but Moniz goes straight to the heart of each issue and dissects it with an honesty that is both brutal and affectionate. In all of us there is a black core, a “dark side,” but if we stare at it we can survive and perhaps even become better human beings, Moniz seems to tell us. “I wonder if things could have been different for my cousin if I’d come clean about my own darkness. What if I had spilt mine onto the kitchen table where the light could reach it, let her sift through and compare it to her own?”
As I translated the stories you have just read I was in an empty house and I had the impression that these lives I had to mould into my language filled the void. In these two years of distance – distance from the country where I was born, distance from old friends, distance from everything I know, and two meters away from human beings in general – I have trained myself, I think like many others, to put myself in other people’s shoes, to approach people in another way, as bodies have come to represent a danger. Translation in itself is an exercise in empathy but perhaps these eleven stories in particular, help us to do just that, to imagine the lives of human beings starting from what they feel rather than where they come from or what they do or what colour their skin is, because at the end of the day we all feel, always, the same old emotions. And I felt like a lost teenager, a lonely child, a broken man, a witchy grandmother, a sick woman, a confused mother, an angry sister. I tried to use different voices for each, and in the end, it was not that difficult. If you play at forgetting space and time, our life is in these stories.