«Chiusi gli occhi e cercai di sognare in un’altra lingua. Mia madre sapeva cinque lingue a memoria e sognava in tre. Suo padre era stato un linguista e un tempo anche lei voleva diventare linguista. A volte, in sogno, passava tutta la notte a tradurre quello che una persona diceva a un’altra. Quando si alzava era così stanca che non riusciva quasi a parlare. Per questo dormiva tutto il giorno e di notte vagava per casa. In Africa, diceva mia madre, c’è una città segreta dove nessuno dorme. Mai. Se un viaggiatore ci arriva e si addormenta, viene sepolto vivo prima che si svegli. Visto che gli abitanti non sanno cos’è il sonno, appena lo vedono pensano che sia morto durante la notte. Se si sveglia mentre lo seppelliscono, si mettono in testa che sia un demonio e lo ammazzano di botte. Si capisce di essere entrati nella città insonne solo perché nel cuore della notte c’è un mormorio costante. A parte quello, sembra un posto come un altro.»
È un po’ così il mondo dei traduttori, una città insonne, un luogo in cui il mormorio è costante, in cui non si smette mai di cercare la parola giusta, il tono giusto, il ritmo giusto. Mi piaceva l’idea di iniziare quest’intervista a Gioia Guerzoni, amica e traduttrice di lunga esperienza, con quest’immagine e queste parole tratte dal romanzo Le cose che restano di Jenny Offill, pubblicato da Nn Editore e tradotto proprio da lei. L’ho raggiunta via mail a Haifa, dove vive da qualche mese, e per una decina di giorni abbiamo parlato tanto, ci siamo scambiate aneddoti e consigli di lettura, abbiamo condiviso i miei atroci mal di testa, ma soprattutto abbiamo parlato di traduzione e di editoria.
Fra i traduttori letterari che conosco tu sei sicuramente la più versatile: oltre a tradurre, sei scout, consulente editoriale, esperta di narrativa del Sudest asiatico, ideatrice di raccolte di racconti e tanto altro. Come è nata la tua passione per l’editoria e per la traduzione in particolare? Come e da dove sei partita?
Che bello. Sembra che faccia tante cose chic, ma di fatto sono scuse, pretesti per pasticciare con i libri e le parole. Mi sembra che lo dicesse Angelo Morino. Sono curiosa, prima che dei libri, delle persone e dei paesi. Mi piace molto ascoltare lingue che non capisco. E poi tradurre, o fare tutte queste cose che dici, è un ottimo metodo per evitare la noia e la famosa solitudine del traduttore. Ho bisogno delle persone, mi piace osservarle, sentire cosa dicono. Magari non di lavorarci insieme in un ufficio otto ore al giorno, altro vantaggio della traduzione.
Ho fatto parecchie cose tangenziali alla traduzione negli ultimi anni, l’avviamento dei social media per NN editore, la consulente per un format televisivo di Discovery girato in India, ogni tanto scrivo degli articoli sull’editoria dei paesi che visito o su storie in cui inciampo.
Il novanta percento del mio tempo comunque è occupato dalla traduzione, che incredibilmente mi piace ancora, forse perché è l’unico cibo che mi sazia, che mi evita di fare indigestione di mondo, che mi fa stare ferma, se non in un posto, almeno con un libro.
Anche perché è solo grazie alla traduzione che ho potuto viaggiare tanto. Non perché mi ricopre d’oro, ovvio, ma perché è tra i rarissimi lavori che permettono di lavorare ovunque e con ben pochi strumenti. Wifi, computer, un po’ di amici qua e là e il gioco è fatto.
Tutto è iniziato come sempre per caso. A diciannove anni abitavo in Scozia e il fidanzato di allora mi dice andiamo in India? E io perché no? Non sapevo niente di India, non facevo yoga, Siddharta non mi era piaciuto, gli hippie mi davano irritazione o sonnolenza. Ma l’idea dell’India mi affascinava. Poi ho letto Esperimento con l’India di Manganelli. Che genio. E che sollievo leggere qualcosa di non sentimentale e strappalacrime su quel paese. Così sono partita.
Insomma, mi è piaciuto talmente tanto quel paese, quel popolo così ironico, inconsapevolmente o meno, alla Hollywood Party, che ci sono tornata ogni inverno per qualche mese per vent’anni. Delhi, Bombay, Calcutta, Bangalore. Preferisco le megalopoli. E pian piano ho conosciuto scrittori, editori, artisti, giornalisti eccetera.
E così potevo proporre cose interessanti in Italia e ho tradotto parecchi indiani, ovviamente di lingua inglese. Che piaccia o meno, è la lingua franca. Poi nel 2007 ho proposto l’antologia India per Isbn, quando c’era Giacomo Papi e una redazione eccellente, ben prima che fallisse insomma. Era fiction e non fiction e fumetti, ho selezionato e tradotto, e mi è servita a imparare i rudimenti del lavoro di editing, che poi è utile anche per la traduzione e per gestire i rapporti con gli scrittori. Ho anche capito da subito che non siamo autori. O perlomeno io non mi sento un autore, non devo preoccuparmi di costruire una trama. Devo solo fare un puzzle di parole e suoni e sintassi e un miliardo di altre cose. Ma non me lo devo inventare.
Comunque, grazie alle recensioni – l’antologia ha stranamente venduto più di tremila copie – ho ricevuto parecchi inviti a cose divertenti, in Italia ma soprattutto in India e in Pakistan. Poi qualche anno fa con la deriva verso destra ho pensato, forse meglio cambiare aria. E mi sono messa a studiare il Sudest asiatico.
E per tre, quattro anni ho esplorato quella parte di mondo. Il primo anno come scout pagata – poco ma decorosamente per il Saggiatore. Di solito se mi invitano da qualche parte – cioè ho mille euro di voli pagati – io mi impegno a creare una catena di altre cose da fare, per sfruttare il volo e stare in giro qualche mese. Per esempio, un anno mi hanno invitato in Pakistan – a un panel sulla traduzione – e da lì sono scattati inviti vari, parlare all’università di Lahore, fare il facilitator per un corso del British Council a Karachi, andare da un amico traduttore a Jakarta a fare un crush course di editoria per il Goethe. Sempre traducendo, magari non dieci ore al giorno ma cinque, almeno, e ogni giorni.
Tutto questo succede perché ho amici simpatici e generosi. In genere ho vitto e alloggio garantiti, più biglietto aereo. Nessun lusso, tranne rari casi scintillanti, ma molto divertimento e imparo sempre un sacco di cose. Non c’è modo migliore per conoscere un paese che avere due o tre amici traduttori o scrittori o editori che ti portano in giro, ti danno da leggere dei libri e ti portano a mangiare nelle bettole locali, a prendere i granchi a martellate, per esempio, o a mangiare insetti fritti. Lo stesso è successo a Bangkok, anche se non traduco dal thai, però so tutto del publishing thailandese. Inutile? Certo, però è divertente e poi chissà. A Singapore vengo invitata abbastanza spesso, e anche in Malesia.
Insomma, penso che la capacità di «incrociare» le persone porti diversi doni, oltre che esperienze meravigliose. E poi così mi sento a casa un po’ dappertutto.
Ora sono un po’ stufa di viaggiare. Anche perché abito in Israele da tre mesi e di cose da capire e posti da esplorare ne ho parecchie. Ho una lingua da imparare e un po’ di amici scrittori e traduttori. Non penso che ci sarà da annoiarsi.
Hai iniziato in modo poco classico, insomma, senza corsi universitari specifici o seminari di traduzione. Ti sei costruita il percorso con le tue mani.
No no, ho fatto una cosa classicissima, la scuola interpreti a Milano, quattro anni. Mi piaceva molto la traduzione ma anche l’interpretariato mi affascinava – le tecniche di decalage, l’obbligo alla sintesi, alla rapidità, capire come funziona il cervello eccetera. Ho fatto l’anno di parlamentare per simultanea e consecutiva e l’ho passato bene. Però non mi piaceva l’atmosfera dei convegni. Sono sociale solo in certi ambienti, con certi animali. Lì invece è socialità spinta, obbligatoria. In pratica, mi piaceva lavorare in cabina ma non volevo mai uscirne. E allora meglio tradurre. Però ho imparato un altro mestiere, oltre alla traduzione, e ho coltivato la passione per le informazioni un po’ inutili, bizzarre, i trivia. Mi ricordo ancora che all’esame di fine anno uno dei temi di simultanea era: nuove tecniche di allevamento degli ovini nei paesi nordici. Un altro era: i sistemi di raffreddamento nell’architettura mediorientale. Cose così. Poi una roba sull’ulcera peptica. Meraviglia. Anche con la traduzione impari un sacco di cose assurde e probabilmente inutili. Ma non si sa mai.
Il primo libro che hai tradotto qual è stato? Era un tuo scouting o sei stata contattata da una casa editrice? Eri in India a tradurlo?
Oddio il primissimo libro era un polpettone sugli angeli di uno scienziato francese. Sì, ho tradotto cento libri dall’inglese e uno solo dal francese, il primo. Poi ho tradotto dei mattoni storici, saggi divulgativi bizzarri, tipo la vita di Cleopatra, gli Unni chi erano costoro, tutto su Dracula eccetera.
Questo per qualche anno, con Piemme, per cui avevo scritto un ridicolissimo manuale di cucina vegetariana (lo ero, adesso non più). Certo, non mi sono divertita molto a tradurre quella roba, perlomeno non tutta, ma ho imparato a gestire la disciplina, le scadenze, i soldi, i contratti, gli editor, oltre alla traduzione vera e propria.
Poi a venticinque anni, ne ho quarantasette, il primo romanzo, bellissimo, con il Saggiatore, Bringing Out the Dead di Joe Connelly. Il titolo in italiano non era un granché, Pronto soccorso. Fa un po’ ridere. Poi Scorsese ci ha fatto anche un film. Un buon inizio, con una ottima editor, Daniela Majerna, che mi ha insegnato parecchie cose. E poi è arrivato il secondo romanzo, poi il contatto con altre case editrici eccetera.
Poi pian piano dopo qualche anno ho iniziato a proporre io degli autori.
In genere non mi capita mai di azzeccarci. Sarebbe bellissimo tradurre un newyorkese a NY o un indiano a Delhi. Invece mi è capitato di tradurre Siri Hustvedt a Bombay, Teju Cole a Bangkok o Iris Murdoch in Israele. Eh. All’inizio mi sembrava strano, poi ho pensato che tanto è un terzo mondo, una terza lingua quella della traduzione, quindi perché non un terzo paese. Uno straniamento piacevole. Quando traduco entro in una bolla.
Qualche autore che hai portato in Italia? Tra le tue scoperte mi sono piaciuti molto Tishani Doshi e Altaf Tyrewala, entrambi presenti con un racconto in «India» e in seguito pubblicati da Feltrinelli. Sei ancora in contatto con quegli autori? Sarnath Banerjee e Susan Mridula Koshi che fanno, hanno continuato a scrivere?
Sono in contatto con tutti, avevamo lavorato molto insieme, e quindi si erano sviluppati rapporti di amicizia più o meno intensi.
Tishani è stata letta sulla mia antologia e pescata da Feltrinelli prima degli altri editori. Le ho pure trovato marito… Altaf è stato la mia guida a Bombay per tantissimi inverni. Peccato che ora abiti a Dallas, e che Modi sia al governo. Non ci vediamo da tempo ma sono riuscita a proporre i suoi racconti durissimi e molto poco Shining India, Karma clown, a un altro editore del cuore. Feltrinelli aveva pubblicato il romanzo, ma siccome il racconto non piace/vende/tira (bugia) l’ho proposto altrove.
Sarnath Banerjee è diventato un artista famoso (anche se lo negherà sempre, preferisce i losers, e abita a Berlino). Ogni tanto ci sentiamo e ci incrociamo. Gli voglio molto bene, perché lui mi ha mandato una lista lunghissima di nomi per l’antologia, oltre a quelli che avevo già. Super generoso. E poi con lui ridiamo un sacco. Anche se adesso in India c’è poco da ridere, e infatti non ci andiamo.
Con gli altri ci scriviamo, ci seguiamo su facebook, mi mandano i loro manoscritti eccetera. Susan Mridula Koshi scrive, Annie Zaidi scrive… tutti continuano a lavorare e mi aggiornano. Insomma, sono fortunata.
Comunque negli ultimi anni l’interesse per l’India è calato in Italia, il radar si è spostato verso l’Africa, oltre ai soliti Usa e Uk.
In questo momento sto leggendo tanta roba da Singapore. Vanno fortissimo sui racconti. E io adoro i racconti. Poi magari le sorprese arrivano anni dopo: Ieri ho conosciuto Elizabeth Pisani che avevo proposto e tradotto per add un bel po’ di tempo fa.
Sto cercando di avviare una nuova antologia con un editor asiatico. Per ora ho un sacco di lavoro con grandi e piccoli editori, e poco tempo, quindi si vedrà.
Quali sono le differenze principali che hai notato tra l’editoria italiana e quella dei paesi per cui lavori?
Non ci sono enormi differenze, e noi traduciamo molto di più, in generale. I traduttori sono ugualmente sottopagati in Asia, ma a Singapore le traduzioni sono sovvenzionate, quindi spero che gli editori italiani ne approfittino.
In Italia si parla tanto della gloriosa editoria indipendente, ma è necessario fare dei distinguo. Ci sono piccoli editori sani – che pagano tutti e il giusto e nei tempi stabiliti dal contratto – come per esempio Saggiatore e Marsilio (che non sono proprio piccoli) e poi NN, Racconti, add e Codice (e molti altri ma non ci lavoro), e altri che in nome della «passione per la cultura» non pagano o offrono cifre risibili. Ecco a questi signori, spesso di «sinistra» bisogna semplicemente dire di no. Rifiutarsi di lavorare con loro. Quando Isbn ha iniziato a pagare con orrendi ritardi non ci ho lavorato più. Chi ci lavora, semplicemente rischia (tutti sui social e nessuno lo sa? Ma per favore), ed evidentemente non ha bisogno di soldi. Purtroppo Isbn non è l’unico esempio, ce ne sono stati altri, Voland, Elliot, Baldini nei suoi vari avatar e il sottobosco di minuscoli editori che offrono cinque euro a cartella. E poi le traduzioni fanno pena. Chissà perché. Io lavoro anche con Mondadori, Einaudi e Feltrinelli. Non sempre grande è sinonimo di cattivo. Come non è detto che piccolo e indipendente sia il bene.
Come sono invece i festival letterari del Sudest asiatico rispetto a quelli italiani?
I festival letterari: in India ormai ce ne sono mille come da noi. Jaipur è al decimo anno, sempre affascinante ma ormai è un delirio, troppa gente, troppa roba. Un po’ come Mantova, con gli eventi che si accavallano, folle oceaniche. Bello ma stancante. Molto meglio il festival di Georgetown a Penang, in Malesia, per esempio. Piccolo, raffinato, in posti pazzeschi, ex magazzini cinesi, vecchie case coloniche, con pochi eventi curati e ben moderati. Tutto gratuito anche questo. Il Writers Festival di Singapore è molto efficiente, organizzatissimo, interessante. Non si svolge in luoghi particolarmente significativi ma rimane un ottimo hub per la regione del Sudest asiatico. Oppure il festival di Karachi, dove la gente arriva a frotte, assetata di cultura. È una città di ventotto milioni di abitanti dove ogni giorno, sul giornale, c’è la «mappa del crimine». Una bomba qui, una sparatoria là. Ovviamente da noi non fa notizia. Eravamo tre o quattro traduttori – due di Lahore, un inglese e io – trattati praticamente come delle star (incluse guardie del corpo con AK47 e autista e macchina blindata). Incredibile. E parlare con i pochi scrittori rimasti è meglio di leggere mille romanzi.
In Italia mi piace Incroci di civiltà, a Venezia, come dimensioni. Sono stata invitata a moderare gli incontri con alcuni scrittori. Facile con quelli che ho tradotto, terrorizzante con Kureishi, ma poi è andato tutto bene. Forse perché mi ero tinta i capelli di blu. O forse perché lo conoscevo da prima, comunque è stato divertente. E lui può essere davvero poco piacevole sul palco. Comunque sì, Incroci è una meraviglia. Non sono ancora stata a Dedica, a Pordenone, a Babel. Penso che i festival, se non diventano bulimici e sovradimensionati, siano un’ottima occasione per sentire parlare i nostri supereroi, gli scrittori.
Hai citato tre grandi autori che hai tradotto, Siri Hustvedt, Teju Cole e Iris Murdoch. Tre stili diversi, tre personalità diverse, tre mondi diversi. Che tipo di difficoltà presentavano i loro testi?
In pochissime parole: Siri Hustvedt è proprio «difficile» nel senso che bisogna studiare un sacco – neuroscienze, filosofia, psichiatria, psicologia, arte eccetera. Anche nei romanzi. Non mi sono piaciuti tutti i libri, ma ho imparato un miliardo di cose (forse inutili, ma chissà). E lei è molto disponibile via mail e facciamo grandi chiacchierate quando ci vediamo.
Teju Cole non ha una lingua difficile – tranne in certi saggi – ma è un tranello: sembra facile, a una prima lettura, ma poi non lo è affatto. Proprio perché ha un suo ritmo preciso. Città aperta era una camminata, nel senso che il ritmo era scandito dai suoi passi. La lingua era fintamente colloquiale ma densa di sottintesi e riferimenti. Il libro per Contrasto, Punto d’ombra, era praticamente poesia per immagini. Le immagini senza testo non bastavano a sé stesse e viceversa. Ora forse tradurrò i suoi saggi, ma visto che non ho ancora il contratto aspetterei a parlarne. Negli anni Teju è diventato un vero amico e facciamo lunghe passeggiate e chiacchierate ogni volta che ci incontriamo da qualche parte.
Tradurre Iris Murdoch è stato un’avventura: dei tre romanzi, uno era inedito e due già tradotti negli anni Sessanta. Prima di tutto ho capito che lavorare con i morti non mi piace un granché, ma mi ha obbligato a prendere decisioni più drastiche. Tradurre è decidere a ogni parola, ogni riga, quindi mi sono fatta muscoli ancora più sodi. E ho sempre riletto con gratitudine le vecchie traduzioni, dopo la mia stesura, come appigli, anche se a volte erano così superate o fantasiose da essere inutili dal punto di vista pratico. Ma magari avevano la eco giusta. Ogni romanzo della Murdoch è un vaso di Pandora con stili diversissimi, ma sempre un filo conduttore, che poi è la ricerca sull’etica, sul significato del male e del bene, sul libero arbitrio. Penso che Una testa tagliata sia un capolavoro. Tra l’altro tutti scopano con tutti, incesto compreso, e non c’è una sola scena di sesso.
Poi quest’anno è stata una grande felicità tradurre Jenny Offill e David James Poissant per NN, Altaf Tyrewala per Racconti Edizioni, Elisa Albert per Marsilio, i racconti Saïd Sayrafiezadeh per Codice, Ottessa Moshfegh per Mondadori… Sono molto grata, mi sveglio tutte le mattine e lavoro sulle parole di persone speciali.
In un tuo contributo su Teju Cole scrivi che nel lungo elenco degli strumenti indispensabili del traduttore inserisci l’ascolto attento, «ascoltare sempre, camminare piano e guardare bene». Credo che il fatto che ti sporchi quotidianamente le mani con le realtà che traduci sia il tuo vero grande strumento, prima ancora di internet, dei dizionari monolingue, dei dizionari di slang eccetera. Cosa ti dà vivere all’estero che l’efficienza di internet non può darti? Quali sono gli altri strumenti che usi?
Non so, questa cosa di fare casa facilmente non è uno strumento tanto consapevole, è un caso, un regalo del mio carattere, del mio Dna, era un talento di mio padre. E poi sporcarsi le mani è necessario, ma non funziona bene con tutti gli autori. Con certi il lavoro di ventriloquo viene bene, con altri meno. Penso sia una questione di affinità e sensibilità, semplicemente. Per fortuna negli ultimi anni ho lavorato quasi sempre con autori affini.
Mi è sempre piaciuto vivere in due posti, in due culture, e questi miei andirivieni sono stati resi possibili dalla traduzione, che è una specie di andirivieni con tante deviazioni.
Le volte in cui mi è capitato di vederti all’opera ho notato che sei velocissima, e che la tua prima stesura è molto vicina a quella definitiva. Quanti libri riesci a tradurre contemporaneamente? Come ti organizzi, come è scandita una tua giornata di lavoro?
No, proprio velocissima no, ma la prima stesura è la più istintiva. Poi certo, gli abbagli li prendo, ma la eco dell’originale è nella prima, per me. Poi c’è il lavoro di limatura. Non traduco quasi mai più di un libro contemporaneamente, anche perché non amo lavorare sotto pressione e non ho mai consegnato in ritardo, mi darebbe troppa ansia, quindi programmo cento cartelle al mese, più o meno. Piuttosto rifiuto delle proposte, perché so che lavorerei male. Più di tot ore al giorno, diciamo sei ore pulite, non riesco a lavorare, anche perché il lavoro di scouting o scrivere articoli, significa almeno altre tre, quattro ore al giorno tra mail e letture.
Mi alzo presto e lavoro fino a mezzogiorno, spesa, passeggiata, pranzo (leggo articoli a pranzo, mi piace un sacco raccoglierli su pocket e leggerli) e poi riprendo. Non lavoro quasi mai dopo cena. Però lavoro quasi sempre nei fine settimana. Tutti i giorni cerco di fare un giro a piedi e a vedere qualcosa di nuovo. Per fortuna mi bastano sei ore di sonno.
Hai un approccio alla traduzione diverso rispetto ad altri traduttori che conosco o con cui mi è capitato di parlare. Tu parli di felicità nel tradurre, filosofeggi poco e provi un senso di gratitudine per quello che fai. È corretta la mia affermazione? E come ti rapporti agli altri tuo colleghi?
Quando ho iniziato a tradurre sapevo che non si guadagnava molto. Non avendo le spalle coperte – né famiglia né marito granoso – ci ho provato, come un esperimento. Ho imparato a vivere con poco, a pagare un affitto e poi un mutuo, a non comprare nulla di superfluo. Mi dà molto fastidio la lamentazione, soprattutto di chi non agisce per cambiare le cose. Non mi lamento, e sono grata di non dover stare chiusa in un ufficio per la stessa cifra. La filiera dell’editoria è al ribasso, quindi o faccio la rivoluzione o sto zitta. Ma l’individualismo regna nel nostro lavoro. Di una cosa sono certa: chi si lamenta e poi accetta la metà di quello che prendo io o lavora con editori canaglia fa un gioco sporco. La scusa della visibilità nel 2016 è patetica. Io prendo tra i quindici e i diciotto euro a cartella. Altro argomento tabù. Perché poi? È volgare parlare di soldi? Stiamo scherzando? Per i musei o cose di design prendo di più ma non in modo continuativo. Quanto guadagna un redattore? Un ufficio diritti? Un editor? Se volessi il doppio di quello che guadagno farei un altro lavoro. Ho avuto qualche offerta, negli anni. Ma non voglio avere un capo né timbrare cartellini, quindi mi va davvero molto bene così, finché dura. Certo sarebbe favoloso guadagnare di più, non sono tonta, ma il mercato è questo. Ho colleghi che la pensano come me, per fortuna. Pochi ma buoni. Gli altri boh, lamentarsi non fa bene. Poi i giornalisti finiscono per mettere titoli strappalacrime, «la vita agra», la «solitudine del traduttore» eccetera. Anche no. Conosco parecchi traduttori felici o perlomeno soddisfatti di quello che fanno. Meno male.
E con gli editor che ti revisionano le traduzioni come va? Anche tu fai revisioni di traduzioni altrui?
Molto bene, quasi sempre imparo cose. Ho una serie di persone con cui lavoro da tempo, e quindi ci si capisce al volo, altre nuove a ogni libro (per esempio con Mondadori) ma in genere fanno interventi ottimi, migliorativi. Spesso propongo io una prova, anche con editori che conosco, per vedere come funziona la mia voce su quella dell’autore. Più che una prova è un avviamento, un colpo di manovella, poi parto. In pratica lavoro sul testo con l’editor all’inizio, per qualche pagina, per capire se ci sono problemi rilevanti o se il registro funziona. Questo in genere fa risparmiare tempo in fase revisione. Finora ho avuto solo un paio di collaborazioni non fruttuose. Su un centinaio di libri è una buona media. Rivedo testi altrui una volta l’anno, più o meno, ma solo di gente che conosco, quindi non faccio testo.
Prima hai accennato alla tua collaborazione con NN editore per cui hai tradotto recentemente «Le cose che restano» della Offill e i racconti di Poissant. Come si sono incontrate le vostre strade? Come si svolge il tuo lavoro per loro?
Ho conosciuto Eugenia Dubini per caso, su Instagram (storia lunga e cazzara), poi lei un giorno mi ha chiamato e mi ha detto sai, vorremmo aprire una casa editrice, possiamo chiederti delle cose? E così ho conosciuto anche Gaia, la socia di Eugenia, che ora non c’è più. Io sono di natura entusiasta, non per tutto, ma insomma sì, mi entusiasmo per un sacco di cose. Ecco, trovare due donne, della mia età (tutte e tre toro 1969) così appassionate non mi è sembrato vero. Ci siamo subito accorte di avere una grande affinità letteraria oltre che emotiva e sentimentale. Ho fornito una lista di traduttori, vari contatti di editor simpatici nel mondo, ho iniziato a fare schede. Schede speciali, con immagini, canzoni, rimandi eccetera. A loro è piaciuto. Così ho cominciato a valutare manoscritti per loro, o a fare semplici «assaggi», o a leggere in casa editrice (tutti in una stessa stanza – collaboratori, lettori, traduttori, amici – a leggere stampate e dare voti, bellissimo!). Poissant l’ho rivisto con Gaia, la Offill con Eugenia, e abbiamo parlato tanto all’inizio, in fase rodaggio, oltre che durante la revisione. Poi mi hanno chiesto di dare una mano con i social media – lavoro pagato, naturalmente – e così per tre mesi oltre a tradurre ho fatto quello. Prima di tutto ho proposto di fare una lezione con uno dei miglior social media strategist italiani, Alessandro Mininno, e loro hanno accettato, poi siamo partiti. Il fatto di avere messo le foto di tutti sul sito è stata una mossa vincente, mi pare. Se ci pensi, non si conoscono quasi mai le facce della filiera. Poi dopo tre mesi di twitter e facebook a manetta ho capito che faticavo a tradurre – il cervello va a un’altra velocità – e così ho chiesto a Luca Pantarotto di sostituirmi (non lo conoscevo ma lo seguivo su facebook e twitter). Lui lo fa a tempo pieno, è una macchina da guerra. Si sono piaciuti e voilà.
Un’altra cosa speciale è che NN chiede ai suoi collaboratori una nota del traduttore, cosa che in precedenza aveva fatto Isbn. Il traduttore ha carta bianca. Pare che anche ai lettori faccia piacere capire cosa passa per la nostra testa. Strano ma vero.
Oggi NN è uno degli editori più amati sul mercato, dai lettori e dai librai. E poi incredibile: vendono. Vendono bene anche i racconti. Poissant è sulle tremila copie, Offil quattromila, Haruf molte di più. Cerco di farmeli dare da eugenia Hanno creato un rapporto «affettuoso» – novità in editoria, mi pare – con i lettori oltre che con i collaboratori. Gaia sarebbe molto felice.
Ora che vivi in Israele imparerai a conoscere anche quest’altro tipo di narrativa, che immagino piena di energia. Hai già trovato qualcosa di interessante?
Conosco un po’ di editor bravi, di case editrici medie e piccole a Tel Aviv, e traduttori sia dall’italiano all’ebraico che viceversa. Ho chiesto consigli sui libri da leggere e sto cercando di capire cosa pubblicano, non per lavoro ma per curiosità, ovvio. In passato ho letto i grandi nomi, Grossman, Oz, Yehoshua e poi Shabtai e Keret, ma ora voglio esplorare gli altri. Leggo spesso in traduzione verso l’inglese perché purtroppo parte di quello che ho letto in italiano è tradotto male (eh sì, è proprio brutto l’italiano, a prescindere dalla lingua di partenza). Leggere romanzi è un buon modo per capire un paese, oltre a parlare con la gente. E soprattutto in tempi di crisi del giornalismo e di post verità (di facebook gatekeeper ) forse la fiction è una salvezza. E poi devo scrivere un articolo, quindi intervisterò un po’ di persone. Per ora studio l’alfabeto e quando riesco a leggere qualche parola sono felice come in prima elementare.